Il 7 settembre del 2009 è scomparso John T.Elson, l’autore di una clamorosa inchiesta comparsa sul Time e
destinata a fare epoca. Portava la data dell’8 aprile 1966, una
manciata di mesi dopo la conclusione del Vaticano II e qualcuno in più
prima dello scoppio fragoroso di quello che sarebbe stato il – mitico,
famigerato, rimpianto, a seconda dei gusti – Sessantotto. La sua
copertina, su uno sfondo scuro, riportava solo un interrogativo
lapidario, in caratteri rossi: Is God dead? (Dio è morto?). Nel ricordarlo, L’Osservatore Romano
ha dedicato una riflessione alla canzone di Francesco Guccini ispirata
da quel titolo, ancor oggi, per tanti, la sua più famosa: Dio è morto, appunto. Che viene presentata come “un’esaltazione di valori umani e naturaliter
cristiani; tanto che, al contrario del cieco bacchettonismo dei canali
nazionali ufficiali, il pezzo fu messo in onda dalla Radio Vaticana”.
Fra le leggende metropolitane legate al brano ce n’è una, perlomeno
verosimile, che racconta di come Paolo VI l’avrebbe definito un lodevole
esempio di esortazione alla pace ed al ritorno a sani e giusti principi
morali.
Siamo andati a parlarne direttamente con Guccini, raggiungendolo nei primi giorni di ottobre nel suo buen retiro
di Pàvana, dove da qualche anno ha scelto di abitare nella casa in cui è
cresciuto da bambino, e che sta pian piano rimettendo a posto. A
partire da Dio è morto, con lui – modenese di nascita, classe
1940, storico cantautore, scrittore, sceneggiatore di fumetti, linguista
e persino attore (per gioco, tiene a precisare) – abbiamo ripercorso la
sua vasta produzione musicale, scegliendo il filo rosso della
spiritualità. Non si è tirato indietro, confermando – una volta di più –
la sua vocazione a porsi controcorrente rispetto al clima dominante nel
Paese, la sua vitalità genuina, il suo impegno civile e la passione per
la forza primigenia della parola, in musica e non solo.
Cominciamo con Dio è morto, allora.
Avevo venticinque anni e stavo studiando all’Università di Bologna (sembra strano, sono stato giovane anch’io!), i primi sit-in e il Sessantotto erano alle porte, era mia intenzione scrivere qualcosa di generazionale, con Dio è morto.
Sta arrivando qualcosa che ci porterà a una nuova primavera, l’idea è
questa, giocata su un registro fra l’apocalittico e l’esistenziale.
Oltre allo spunto del Time, un altro mi venne da alcuni miei versi vagamente ispirati a T.S.Eliot, intitolati Le tecniche da difendere,
che dicevano fra l’altro: “Non abbiamo tecniche da difendere/ né miti
da venerare/ dei ed eroi”, per concludersi con un’esortazione rivolta ai
coetanei: “Voi della mia generazione: svegliatevi!” (che poi cambiai,
imitando il Paradiso perduto di Milton, quando Satana parla agli angeli che poi decadranno, con “O potentati, principi guerrieri…”). Anche se l’incipit, ovviamente, mi derivò da una famosa poesia di Allen Ginsberg che ispirò la beat generation, Howl (Urlo):
“Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla
pazzia…”. Tutto nasce, comunque, dalla consapevolezza che qualcosa
doveva cambiare! Faccio spesso questo esempio: la scuola che racconta
Fellini in Amarcord, dunque di prima della guerra, in pieno
fascismo, era identica alla scuola che ho frequentato io, alcuni decenni
più tardi, in piena democrazia! I primi versi di Dio è morto
sono un’accusa, gli ultimi risentono del pacifismo che c’era allora, ed
era una mia risposta ad un extraparlamentarismo che sentivo come troppo
violento. Del resto, l’aggiunta finale della speranza non mi venne dalla
volontà di trasmettere il canonico happy end, ma dal fatto che
all’epoca la speranza covava veramente. Certo, il dio di cui parlavo
era un dio con la minuscola, un dio laico simbolo dell’autenticità…
anche se il mio primo recital che ho fatto, quattro brani in tutto, dopo
le esibizioni in osteria o con gli amici – era il dicembre 1968 – fu
proprio alla Cittadella di Assisi, un luogo simbolo del rinnovamento
della chiesa… e poco dopo andai anche a Loppiano, e mi esibii, anzi: fui
preso di forza e piacevolmente costretto a cantare, davanti ai
focolarini. Per evitare problemi (che ci saranno ugualmente), la prima
incisione, dei Nomadi, porta nel titolo un punto interrogativo, oltre al
sottotitolo fra parentesi Se Dio muore è per tre giorni e poi risorge… C’è un altro aneddoto su Dio è morto…
Quando andavo all’università pensavo a una carriera accademica.
Fortunatamente ho cambiato strada! Avevo fatto tutti gli esami, mancava
solo la tesi, ma mi bocciarono in latino, sui paradigmi, e io ricordavo
solo i più facili. Il professore disse all’assistente: “Lo sa che questo
ragazzo ha scritto quella canzone bellissima che si chiama Dio è morto?” (era stata appena incisa dai Nomadi). “Però, si ricordi, i paradigmi vanno chiesti a tutti”. E mi dissero di tornare…
La ricomporresti oggi?
Dio è morto 2 la vendetta, come
certi film? No, perché, appunto, è una canzone generazionale, che si
rivolgeva alla gente di allora, anche se ogni volta che la canto in
concerto mi stupisco del fatto che i giovani la conoscano a memoria,
dopo tanti anni… non riesco a eliminarla dalla scaletta! Il merito però,
devo dire, non è del tutto mio, ma degli sponsor di queste canzoni (potrei ricordare anche Auschwitz), i razzisti e gli imbecilli che, a quanto pare, tornano periodicamente alla ribalta.
Ecco La Genesi, anno di grazia 1973, il divertissement cabarettistico da Opera buffa… di cui Umberto Eco, su L’espresso,
ebbe a scrivere: “Talora pare che Guccini cambi genere, e tenti il gran
circo coi suoi clowns, come quando disserta sul sesso o sulla creazione
del mondo. Ma anche qui egli procede a enciclopedia, il suo Dio
incazzoso e umanissimo (mi si perdoni la contraddizione, come Dio l’avrà
certamente perdonata a Guccini, Guccini a Dio) è biblico proprio nella
fangosa sovrabbondanza dei suoi procedimenti demiurgici”.
Era il periodo in cui facevo molto
cabaret, all’Osteria delle Dame a Bologna, ho fatto cabaret sullo stile
dei francesi, Brassens ad esempio, per parecchio tempo, con Guido De
Maria e gli Archibusti… Descrivevo quel pezzo come “una canzone ispirata
direttamente dall’alto”, prima pietra di “un’opera musicale colossale”
che doveva spaziare per l’intero Antico Testamento, e come “la vera
storia della creazione del mondo”. Ecco allora l’iconografia più
tradizionale (Dio, “un vecchio con la barba bianca”), per poi dirottare
sulla parodia (di volta in volta presentandolo come scocciato, iroso,
con i contatti giusti). In fondo, era una canzone abbastanza banale, ma
il divertimento nasceva dal parlato… quello che c’è nel disco, che è un live, rappresenta solo una piccola parte di quanto è stato registrato quella sera… mi scatenavo!
Passerei a Libera nos Domine, da Amerigo, siamo nel ’78, un anno cruciale per il nostro Paese…
Libera nos Domine… qui c’è la memoria dell’infanzia, col recupero delle rogazioni,
classico genere della tradizione religiosa popolare nostrana. Con le
rogazioni, si chiedeva il soccorso divino per ottenere finalmente la
pioggia dopo un periodo di siccità, o si supplicava di vedere
allontanate le malattie collettive (tipo peste, colera e dintorni). La
nostra era una religiosità popolare, casalinga, piena di credenze
paganeggianti. Io, quando l’ho composta, avevo lasciato da parecchi anni
la chiesa, suppergiù a dodici anni, dopo aver fatto la comunione e la
cresima (lo stesso giorno, come usava allora, credo per risparmiare
sulle feste…) presso la parrocchia di Sant’Agnese, a Modena… mentre solo
qualche anno dopo avrei fondato, con alcuni amici, sempre a Modena, il Movimento Laico Indipendente,
con il quale facemmo uscire due numeri di una rivistina… Qui si tratta
di una preghiera laica, che procede per accumulazione con un vasto
elenco di mali epocali da cui trovare liberazione, con accenti che
riecheggiano gli scenari della stessa Dio è morto: “Da tutti
gli imbecilli d’ogni razza e colore/ dai sacri sanfedisti e da quel loro
odore/ dai pazzi giacobini e dal loro bruciore/ da visionari e martiri
dell’odio e del terrore/ da chi ti paradisa dicendo ‘è per amore’/ dai
manichei che ti urlano ‘o con noi o traditore’/ libera, libera, libera,/
libera nos, Domine”. Ce l’avevo con tutti gli integralisti, con gli
ipocriti, di ogni religione! Beh, anche questa canzone funziona ancora…
purtroppo…
E’ il turno di Shomér ma mi-llailah?, del 1983, tratta dal disco intitolato minimalisticamente Guccini…
Lo spunto mi venne da uno squarcio
meraviglioso del profeta Isaia (21,11-12, ndr). Il titolo –
letteralmente – si potrebbe tradurre con “Sentinella, che cosa della
notte?”. Mi colpì soprattutto l’invito del profeta a insistere, a
ridomandare, a tornare ancora senza stancarsi. Io sono uno sempre in
ricerca, curioso di tutto. All’epoca stavo leggendo la traduzione di
Isaia proposta da Guido Ceronetti, bellissima, uscita per Adelphi. Non
si tratta, però, come qualcuno ha voluto vederci, di un simbolo di
carattere sociale e politico, ma piuttosto di un universale
antropologico. Isaia, il profeta che di regola minaccia fuoco e fiamme
per quanti non seguono le indicazioni divine, a un certo momento della
sua vicenda dimostra in pieno la sua profonda apertura umana, in un paio
di versetti pieni di speranza: sentinella, a che punto stiamo della
notte? Vale a dire, non bisogna stancarsi di porsi delle domande: questa
è la cosa più importante fra tutte! Coltivare la curiosità, la sete di
ricerca… Non ci si può mai fermare. La sentinella risponde: “La notte
sta per finire, ma l’alba non è ancora giunta. Tornate, domandate,
insistete!”. Potrei avvicinare a questo pezzo a Signora Bovary,
del 1987, in cui m’interrogo su “cosa c’è in fondo a quest’oggi”, “cosa
c’è in fondo a questa notte”, “cosa c’è proprio in fondo in fondo/
quando bene o male faremo due conti”… Qui c’è un’angoscia esistenziale,
l’angoscia della notte che non finisce… anche se non ci sono ancora
arrivato, a fare quei due conti… staremo a vedere!
Francesco, tu sei e sei sempre stato un gran lettore. Che rapporto hai con la Bibbia?
La Bibbia è un grande libro,
assolutamente da leggere. È pieno di storie affascinanti, di libri
poetici… Da ragazzetti si leggeva soprattutto il Cantico dei Cantici,
che era così erotico… Certo, quando t’imbatti nel Levitico o in quelle
interminabili genealogie di personaggi più o meno sconosciuti,
l’entusiasmo tende inevitabilmente a scemare, e li salti a piè pari… Amo
in particolare, naturalmente, la Genesi e l’Apocalisse, e sono convinto
che ci possa essere una lettura di questi libri non necessariamente
confessionale.
Qual è il tuo rapporto con Dio (se c’è)?
Beh, parlerei piuttosto del rapporto con
un senso religioso delle cose: in genere mi definisco agnostico, anche
se, quando sono soprappensiero, mi scopro vagamente panteista… Il senso
religioso della vita può essere avere una morale che hai assunto fin da
quando eri bambino. Poi si è modificato con certe conoscenze, certi
incontri e certe cose, ma grosso modo è quello. E quindi per me il senso
religioso della vita è innanzitutto attenersi alla propria morale e poi
pensare che tutto sommato anche per me, che sono laico, c’è la parte
misteriosa della vita che non può essere schiacciata dal positivismo,
dallo scientismo, come poi i secoli hanno sempre dimostrato, e quindi le
fughe nell’irrazionale ci sono e ci saranno sempre… anzi, sono un po’
non solo la nostra condanna, ma anche, a volte, la nostra fortuna, la
nostra possibilità di espansione…
Qualche settimana fa, come sai, è morta
mia madre, Ester. Da qualche tempo, sto pensando a una canzone, che
forse però non ultimerò mai, che sarebbe la mia personale Spoon River, e che vorrei intitolare Vignale,
dal nome della località in cui si trova il cimitero di Pàvana… in cui
vedo i miei passati con cui parlo… se si vive in un paesino come questo,
la morte è presente, ogni anno se ne va qualcuno… Mi viene in mente
anche un pezzo di molti anni fa, Gli amici, in cui canto: “Se e
quando moriremo, ma la cosa è insicura,/ avremo un paradiso su misura,/
in tutto somigliante al solito locale,/ ma il bere non si paga e non fa
male./ E ci andremo di forza, senza pagare il fìo/ di coniugare troppo
spesso in Dio:/ non voglio mescolarmi in guai o problemi altrui,/ ma
questo mondo ce l’ha schiaffato Lui”. Ho scritto, tempo fa, un ricordo
per Biggi, un amico che se n’è andato, un farmacista ligure che
era stato partigiano assieme a Italo Calvino, per una pubblicazione del
Club Tenco, in cui gli dico: hai presente la mia canzone Gli amici?
Immagino sarai sicuramente là – lui era un discreto bevitore – e
stapperai le bottiglie di vino: ci sarà Amilcare del Club Tenco, Augusto
dei Nomadi, Victor dell’Equipe 84, il fumettista Bonvi, e poi ora è
arrivato anche De André… vedrai che un tavolo di carte lo organizzate di
certo! Gli dicevo anche che la morte è un fatto del tutto naturale, e
che noi uomini siamo come piante, che hanno un’infanzia, una giovinezza,
una maturità poi, a un certo punto, il loro ciclo è finito e se ne
vanno: siamo esseri umani, Biggi, fondamentalmente buoni e
retti, con una nostra morale implacabile ma religiosi il giusto… Del
resto, che noia sarebbe essere immortali…
A differenza del tuo collega
Fabrizio De Andrè, affascinato dall’umanità derelitta di un Cristo cui
arrivò a dedicare uno dei suoi dischi più riusciti (La buona novella),
il Dio che ti sta più a cuore sembrerebbe avere le fattezze di quello
dell’Antico Testamento: vivace, potente, fustigatore dell’ipocrisia
umana che considera il più grande peccato. Forse l’unico… E allora,
dimmi qualcosa su Gesù…
Partiamo da De André: sì, stessa
generazione, stessi riferimenti musicali alle spalle, però lui di
famiglia cittadina e alto borghese, e io di famiglia provinciale e
piccolo borghese di origini artigianali (i miei nonni erano mugnai).
C’era il legame delle idee libertarie, ma lui, appunto, veniva da un
retroterra culturale diverso, che ci divideva. Anche se a un certo punto
stavamo decidendo di fare un concerto insieme… che non ci fu! Sul
messaggio cristiano, certamente è stato un grande messaggio… Gesù è
un’immensa figura: è stato il primo, nella storia, che si è messo dalla
parte di quegli altri. Le Beatitudini sono uno straordinario manifesto, e
lungo i secoli i cristiani hanno costruito delle bellissime cattedrali…
Il problema è sorto quando qualcuno si è messo a dire: ti spiego io
cosa Gesù ha detto davvero, ti spiego io come si fa…
Però una canzone su Gesù tu non l’hai mai composta…
Avrei voluto farla, ma non ci sono
riuscito… ma non è detto che non la faccia, prima o poi. Però ho perso i
riferimenti: avevo trovato un paio di articoli sui giornali su questo
argomento, che mi avevano colpito… erano su Gesù che ride. Avevo anche
scritto alcuni versi… su un Gesù con le mani da artigiano e la veste
unta… chissà, dovrò provare a ritrovarli!
Si è fatto tardi. Salutando Francesco e ripartendo da Pàvana (“dov’è
già Toscana ma la voglia di raccontare è ancora tipica dell’Emilia”, ama
dire lui), sono convinto non gli spiaccia che mi torni alla mente un
passaggio di Enzo Bianchi, priore di Bose: “Credo che ci sia posto per
una spiritualità degli agnostici e dei non credenti, di coloro che sono
in cerca della verità perché non sono soddisfatti di risposte
prefabbricate, di verità definite una volta per tutte. E’ una
spiritualità che si nutre dell’esperienza dell’interiorità, della
ricerca del senso e del senso dei sensi, del confronto con la realtà
della morte come parola originaria e con l’esperienza del limite; una
spiritualità che conosce l’importanza anche della solitudine, del
silenzio, del pensare, del meditare”.[Ho trovato questa famosissima intervista e ho deciso di ricondividerla.]
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