Calabria, donne d'onore. Lea, Cetta, Giusy: il coraggio di dire di no.
di Alessia Candito
Erano
tutte donne d’onore. Quell’onore che le vuole mogli bambine, madri
adolescenti, sorelle fedeli e figlie devote. Ma mai semplicemente donne.
Erano la declinazione al femminile dell’angelo del focolare in tutte le
sue forme, che nella famiglia – quella dell’anagrafe e quella più
allargata, e forse ancora più vessatoria, della linea di sangue –
avevano la propria ragione di vita. Ma erano anche donne nate negli
ultimi anni del tanto vituperato Novecento, un secolo che ha reso
fragili i confini stretti della comunità che diventa dovere, del paese
che diventa prigione. Quando Lea, Cetta, Giusy hanno scelto di
scegliere, di evadere, ancora una volta la famiglia ha preteso di
decidere per loro. E in due casi, è stata loro fatale. Delle tre
collaboratrici di giustizia cui la Calabria, su proposta del direttore
del Quotidiano della Calabria, Matteo Cosenza, ha deciso di dedicare la
giornata dell’8 marzo, solo una è rimasta in vita.
Era il 2002
quando Lea Garofalo decideva di raccontare ai magistrati tutto quello
che sapeva sulle faida che da anni vedeva contrapposta la sua famiglia,
reggente di Petilia Policastro, piccolo centro in provincia di Crotone, e
quella dei Mirabelli. Sette anni dopo, ormai fuori dal programma di
protezione, è stata braccata, seguita e rapita nelle vie della Milano
della moda, portata in un campo dell’infinita periferia meneghina,
uccisa presumibilmente dal suo stesso ex compagno, Carlo Cosco e poi
sciolta in cinquanta litri di acido. Il processo che vede Cosco alla
sbarra, oggi le riserva un ultimo schiaffo: per il pm Marcello Tatangelo
del Tribunale di Milano non ci sarebbe aggravante mafiosa nel delitto,
si tratterebbe solo di un omicidio passionale.
Cetta invece ha
scelto di morire. Ha deciso di suicidarsi nell’agosto scorso con un
cocktail di acido muriatico per scappare da un mondo in cui sarebbe
stata sempre la figlia di Michele Cacciola, cognato del boss Bellocco, e
la moglie di Salvatore Figliuzzi, in carcere per associazione a
delinquere di stampo mafioso. Era moglie, figlia, sorella dei cosiddetti
“uomini di rispetto”, con tutto quello che ciò implica, anche oggi, a
Rosarno, provincia di Reggio Calabria. Un fardello che Cetta non
riusciva più a sostenere e del quale aveva deciso di liberarsi. Vessata,
segregata in casa e seguita a vista quando usciva, pestata a sangue
perché sospettata di avere un amante, Maria Concetta – quando per caso
viene chiamata in questura perché il figlio grande ha combinato un guaio
con il motorino –ha deciso di chiedere aiuto. E ha iniziato a parlare:
ha dato un’identità a luoghi e a persone fino ad allora nell’ombra, ha
svelato affari e coperture. Cetta è stata immediatamente inserita nel
programma di protezione testimoni, ma prima di lasciarli, ha affidato i
figli alla madre: “dove non ce l’ho fatta io so che puoi.. ma di
un’unica cosa ti supplico, non fare l’errore mio… a loro dai una vita
migliore di quella che ho avuto io. A tredici anni, sposata per avere un
po’ di libertà, credevo che potessi tutto, invece mi sono rovinata la
vita perché non mi amava, né l’amo, e tu lo sai», scriveva Cetta nella
lettera con cui tentava di spiegare alla madre le ragioni della sua
collaborazione. Ma quegli stessi figli sono stati usati dalla cosca come
cavalli di Troia per costringerla a tornare a Rosarno e ritrattare
tutte le dichiarazioni fatte ai magistrati. A Cetta è stato imposto di
scrivere una lettera e registrare un nastro, nel quale afferma di aver
accusato la sua famiglia per vendicarsi del padre e del fratello che la
maltrattavano. Qualche giorno dopo, Cetta è scesa nello scantinato, si è
chiusa la porta alle spalle e si è suicidata. Scrive il gip
nell’ordinanza di custodia cautelare che qualche settimana fa ha
decretato l’arresto dei suoi familiari per istigazione al suicidio “se
le pagine del processo che saranno a breve esaminate non fotografassero
una realtà brutale e soffocante, si potrebbe credere di leggere
l’appassionante scenografia di un film, nella quale una giovane donna di
soli 31 anni, madre di tre figli e costretta a vivere una vita che non
le appartiene, decide in un anonimo pomeriggio di fine estate di
togliersi la vita, ingerendo acido muriatico, nella disperata illusione
di poter riacquistare la tanta sognata libertà”. Una libertà che Cetta
ha cercato a tutti costi, decisa a dare una vita diversa a sé e ai
propri figli, ma condannata a pagare –scrive ancora il gip – “il
doloroso prezzo che le ha inflitto il destino, che è stato quello di
farla nascere in una famiglia che ha praticato il culto dell’Onore,
elevato a principio cardine dell’esistenza, in ossequio al quale nessuno
viene scrutato negli occhi e nel cuore, e per la cui osservanza si
impone spesso, a chi non lo condivide, di morire lentamente in un
inferno di regole non volute, da cui a volte è possibile fuggire via
solo a costo della propria vita. E un destino simile sarebbe toccato
probabilmente a Giuseppina Pesce, che di Cetta era cugina, e che prima
di lei aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Ma Giusy ha
resistito alle pressioni, ce l’ha fatta. La donna che con le sue
rivelazioni sta facendo condannare buona parte della sua famiglia, è
ancora viva. È sotto protezione in località sconosciuta, interviene in
videoconferenza alle udienze che vedono alla sbarra i suoi familiari e
ad aprile - forse, se ci saranno le condizioni - li incontrerà, faccia a
faccia, in aula. Cresciuta in una delle famiglie della ‘ndrangheta che
conta, inchiodata da una storia criminale ad essere sempre la figlia, la
moglie, la sorella, cugina di qualcuno, Giuseppina – poco più di 30
anni e già tre figli da crescere- dopo l’arresto, avvenuto durante
l’operazione All Inside, il 14 ottobre 2010 ha iniziato a collaborare
con i magistrati. Per i Pesce –la cosca che da decenni impone il suo
dominio economico e criminale a Rosarno e nel suo comprensorio – è un
disastro. La schizofrenica evoluzione della 'ndrangheta, nel passaggio
dall'abigeato alla finanza creativa, ha trasformato il ruolo delle donne
dei clan. Mogli, figlie, sorelle, zie e cugine non sono più semplici
“custodi del sangue” e di quella vendetta che si perpetua di generazione
in generazione. Oggi le donne di ‘ndrangheta, pur vincolate a una
medioevale concezione di onore, sono a conoscenza dei più intimi segreti
e delle strategie economiche e criminali delle cosche, si sono fatte
spazio, ritagliandosi compiti importati e ruoli di primo piano. "Le
donne non sono solo consapevoli, ma condividono appieno il disegno
mafioso e partecipano alla realizzazione del programma criminale" ha
affermato Natina Pratticò, il gip che tra i 51 provvedimenti restrittivi
emessi per la strage del 15 agosto 2007 a Duisburg, in Germania, ha
firmato 8 misure cautelari per altrettante donne accusate di
associazione mafiosa o favoreggiamento. "La moglie del boss è l'alter
ego del capo, ne assume di fatto il posto quando è agli arresti o
latitante" ha spiegato più volte il sostituto procuratore Giuseppe
Lombardo.
Donne come Concetta Romeo, "a 'ngrisa" (l'inglese) che
ha prima istigato un tentativo di omicidio pretendendo vendetta, e poi
vi ha partecipato seguendo il bersaglio e facendo da palo. Donne come
Maria Valle, che con il suo matrimonio con Francesco Lampada ha sancito
il connubio sempre più stretto fra le due cosche di ndrangheta nel
milanese, ma per gli inquirenti è anche una delle registe della
strategia finanziaria dei clan.
Alla pm della Dda reggina
Alessandra Cerreti, la Pesce è stata in grado di raccontare in dettaglio
del giro di soldi e di affari legato alla famiglia, i ruoli che i
diversi uomini ricoprono, la rete di prestanome che li protegge. E sono
scattati gli arresti e i sequestri. All’epoca, Giuseppina era ormai
lontana da Rosarno, alloggiava in una stanza d’albergo in una località
protetta, i suoi tre figli erano con lei. Una ragazza adolescente e i
due più piccoli. Ed è stato ancora una volta attraverso di loro, tramite
un cellulare che è stato fatto arrivare alla più grande, che la
famiglia è riuscita a far sentire tutto il peso di una scelta non
condivisa. E Giuseppina ha ceduto, ha fatto marcia indietro, rinunciato
alla collaborazione. Era cosciente di cosa i suoi fossero capaci di
fare, sapeva che nella sua famiglia certi “sbagli” non vengono
perdonati. Sarà lei stessa – in seguito, quando ricomincerà a
collaborare - a raccontare cosa succede alle donne di famiglia che
sbagliano, rendendo giustizia a un’altra donna, un’altra Pesce
cancellata dalla faccia della terra e dalla memoria del paese per motivi
d’onore. Erano i primi anni ’80 e Annunziata Pesce era una donna
sposata. Ma si era innamorata di un carabiniere e con lui aveva iniziato
una relazione. Una doppia onta per una famiglia. A condannarla a morte
fu il vecchio boss don Peppe in persona, ma a eseguire la sentenza fu
Nino, il fratello della ragazza. La portò in campagna insieme ad
Antonino Pesce, la fece inginocchiare e le sparò un colpo in testa –
dicono- senza battere ciglio. Sono storie “di famiglia”, che Giuseppina
conosce. Ma i suoi figli – pensava all’epoca - sono più importanti. È
tornata indietro, a Rosarno e su pressione dei parenti e dell’avvocato
da loro scelto Giuseppe Madia- uno di quelli che da sempre segue le
vicissitudini processuali della famiglia- ha scritto una lettera in cui
rinnega tutto quello che ha fatto. O meglio – racconterà dopo ai
magistrati – l’avvocato Madia ha scritto e lei, pur non condividendola,
ha firmato. Ha dovuto farlo. Perché si trattava dell’avvocato pagato
dalla famiglia, perché quella famiglia adesso provvedeva al mantenimento
suo e dei suoi figli. Perché era sola. Ed aveva paura. Per lei, ma
soprattutto per loro. “Sono tornata indietro perché pensavo che i miei
figli avrebbero smesso di soffrire. Sapevo che per me non ci sarebbe
stato un futuro, che avrei fatto una brutta fine, ma speravo per loro”
racconterà Giuseppina ai magistrati nell’interrogatorio dell’8 settembre
scorso, dopo aver scelto di tornare a collaborare “Dopo poco ho capito
che avrebbero pagato per la mia scelta e così ho scelto di tornare a
stare con la giustizia”, racconta Giuseppina ai pm. I figli dell’infame –
perché tale è e rimane la Pesce per la sua famiglia – venivano
maltrattati, sottoposti a pressioni di tutti i generi. “Nel corso dei
colloqui in carcere con i miei figli, ho appreso che i parenti di mio
marito li maltrattano: mia cognata li ha cacciati da casa sua e li ha
mandati da mio suocero” ha detto ancora Giuseppina ai magistrati. “Non
gli danno da mangiare adducendo di non avere più soldi a causa del
pagamento del mio difensore. Il piccolo Gaetano mi ha raccontato che
viene picchiato dal nonno con una cintura, circostanza confermata dalla
mia figlia maggiore”. Violenza fisica e psicologica, pressioni,
prepotenze, imposizioni e logiche alle quali, ha compreso Giuseppina, ci
si può, ci si deve ribellare. Ed è con questa consapevolezza che fra un
mese probabilmente guarderà i suoi familiari chiusi nelle gabbie
dell’aula bunker del Tribunale di Palmi e testimonierà contro di loro.
Una
testimonianza che ha il sapore di un sacrilegio per un mondo che nel
2012 vuole ancora la donna schiava e vestale di un culto, spacciato per
Onore, ma che per Lea, Cetta, Giusy e le tante altre donne di ndrangheta
ha significato solo sottomissione, dolore e morte. Un culto a cui anche
in Calabria, nel cuore dell’impero delle ndrine, si inizia a dire di
no.
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